AUTORITRATTO DI UNA DONNA INVOLONTARIAMENTE ANNI '30
di Maria Livia Brunelli
Quasi tutti quelli che mi vedono per la prima volta, mi dicono invariabilmente: “Sembri una donna degli anni Trenta”. Qualche anno fa sono andata a Roma a trovare una mia amica attrice. Non so come, è successo che mi hanno rubato il portafoglio. Visto che a Roma volevo starci qualche giorno, e non avevo più una lira (all’epoca l’euro non c’era ancora), la signora che ospitava la mia amica mi ha proposto di fare la comparsa in un film che stavano girando a Cinecittà. Guarda caso, era un film ambientato negli anni Trenta. Quando il costumista, un personaggio molto pittoresco, mi ha vista, non poteva credere ai suoi occhi. Infatti in quei giorni avevo una terribile allergia alle gambe che mi costringeva a indossare lunghi mutandoni di seta…per cui, alla prova vestiti, il costumista è andato in deliquio. Così, il mio soggiorno romano si è prolungato per venti giorni, e io, promossa da semplice comparsa al ruolo di figlia della miliardaria, con gioielli e vestiti originali anni Trenta, ho ballato balli anni Trenta tra scenografie anni Trenta. Ricordo ancora le fughe dall’esercito di parrucchiere, alle sei del mattino, per non farmi ritoccare i capelli, secondo l’imperativo categorico che mi aveva dato il costumista.
Travestirmi comunque mi diverte, infatti custodisco gelosamente alcune foto scattate in occasione dell’esame di letteratura italiana. Per tutti gli anni dell’università ho studiato insieme a due mie amiche. Eravamo sempre insieme, e infatti ci chiamavano “Le Tre Disgrazie” del Dipartimento di Arti Visive. Ogni esame era per noi una nuova avventura: ci siamo sempre divertite molto. Quell’anno stavamo studiando D’Annunzio, e ci è venuta l’idea di andare al Vittoriale vestite dannunziane. Dopo un’accurata ricerca nelle soffitte delle nonne, eccoci lì, immortalate in un viraggio color seppia: colte in languide pose, i lungi abiti velati e il viso adagiato tra i guanti di pizzo, scimmiottiamo la Duse in mezzo alle candide rose della dimora del Vate.
Nella vita di tutti i giorni, il mio estro ludico si concentra nei cappellini. Ne ho molti, tutti piuttosto particolari. Quelli che prediligo li indosso fino a sfinirli, tanto che alcuni sono diventati una mia propaggine. Vedendo da lontano un basco di casentino arancione, ormai chi mi conosce sa che sotto ci sono io.
Qualche sera fa, a un’inaugurazione a Firenze, ne avevo uno con lunghe penne e una rosa viola di lato. Mi sono trovata davanti una nota stilista da rotocalco che me lo voleva a tutti i costi comprare. Non avrei mai potuto abbandonare il mio cappellino preferito a un triste destino di notorietà tra le colonne di Novella 2000. Sono sgusciata tra la folla dileguandomi.
Ovviamente personaggi come la citata stilista da rotocalco non viaggiano da soli, e infatti a cena ecco che arriva al nostro tavolo uno scrittore che si mette a blaterare su di me, creandomi non poco imbarazzo. Prima esordisce con un originalissimo “Ma come sei anni Trenta!”, poi precisa “Sei proprio una donna di Casorati”. E infine aggiunge: “Antica ma fresca”. E, rivolto a un giovane pittore figurativo al mio tavolo: “Falle il ritratto nuda, che te lo compro io”. Visti i suoi risaputi gusti sessuali, era più credibile che volesse un autoritratto nudo del giovane pittore, piuttosto che il mio. Poi mi è venuta un’illuminazione: che fosse tutta una farsa per rubarmi il cappellino, suo vero oggetto del desiderio?Mi sono girata, e me lo sono stretta avidamente tra le mani.
Dopo pochi minuti segue l’entrata in scena di un fotografo detto “il paparazzo dada” che vuole sfidare lo scrittore trash ricercando per la sottoscritta, vittima prediletta della serata, una nuova definizione. Definizione che questa volta risente del mio irrigidito tentativo di pormi sulla difensiva di fronte a cotali marpioni: “Altera ma morbida”.
Non so perché, e credo sia un po’ così per tutti, ma da quando sono nata c’è sempre chi mi appioppa definizioni, soprannomi, nomignoli vari.
A dire il vero ho iniziato io, quando da piccola, incapace di pronunciare un nome piuttosto impervio per una bimba come “Marialivia”, a chi mi chiedeva come mi chiamavo rispondevo con l’abbreviativo “Vivi”. Un soprannome incoativo, che incita a non scoraggiarsi mai e ad andare avanti. Infatti sono diventata una persona positiva e ottimista (o almeno cerco di esserlo), tanto che qualcuno pensa che porti gli occhiali rosa.
Timidissima e riservata fino alla fine del liceo, sono faticosamente cambiata fino a diventare “un bagordo vivente”, come mi chiama una cara amica che mi conosce fin dalla elementari, arrivando all’attuale “Trottolivia”con cui si stigmatizza il mio essere sempre in giro per mostre, musei e atelier.
A proposito del lavoro come critica d’arte, devo alla mia professione allora assolutamente agli esordi un altro geniale appellativo con cui mi sono riscoperta nelle poesie di qualcuno che evidentemente mi considerava pericolosa e contagiosa, perché circa vent’anni fa, mi ha etichettato come “il virus M.L.B”. Ringrazio questa persona di una così azzeccata (e profetica!) definizione che è un omaggio al mio attivismo, e che mi ricorda uno dei momenti più belli della mia vita bolognese, quando notando il mio fervore accanito nell’innescare eventi artistici l’allora Assessore alla Cultura, non a caso grande esperto di comunicazione di massa, mi definì un “enzima culturale”. Ero così contenta di quella parola che magicamente riassumeva tutto il mio curriculum, che per un certo periodo l’ho riportata sui miei biglietti da visita, destando una certa curiosità nelle persone a cui li allungavo.
Non tutti capiscono subito neanche la definizione che ha dato del mio nome e cognome un mio amico letterato, osservando che a livello consonantico “Maria Livia Brunelli”, per l’allitterazione della lettera “l”, è “un’apoteosi liquida”. Quando sento qualcuno che ripete il mio nome quasi assaporandolo come una caramella, cercandovi non so quale significato all’interno, provo a tirare fuori la storia dell’ “apoteosi liquida”, ma lo faccio raramente, visti gli sguardi vacui e interrogativi che suscita la mia affermazione.
Il mio è un nome insolito, anche se a Ferrara ho già conosciuto almeno due persone che lo portano. L’ha scelto mio nonno, che viveva a Roma, e infatti studiando l’esame di storia romana ho scoperto che Livia era nientemeno che la moglie dell’imperatore Augusto. Con una certa reverenziale complicità un giorno sono andata, un po’ emozionata, a fare visita alla Domus Liviae, scoprendo che però la mia antica omonima era piuttosto bruttina.
E proprio a Roma, recentemente, ho ritrovato un ritratto che potrebbe essere il mio autoritratto: Figura di donna di Antonio Donghi. Ovviamente è un’opera degli anni Trenta, e precisamente del 1932. Quando me lo sono ritrovata davanti, alla Galleria d’Arte Moderna, ho sentito immediatamente una certa affinità con quella donna dai capelli laccati, dallo sguardo vivo ma quieto, avvolta da un’atmosfera di magica sospensione. Una donna solo apparentemente immobile, come me: posso sembrare una persona molto calma, che emana un senso di profonda tranquillità (c’è chi mi chiama “Camomilla”), ma in realtà sono un vulcano in perenne movimento.
Per farmi un fedele autoritratto, però, Donghi non basta. Dovrei mettere insieme le pennellate di diversi artisti. Il misterioso nero delle ombre lunghe di de Chirico. La grigia verticalità di Giacometti. La soavità rosa di Folon. La diafana levigatezza di Brancusi. E poi comporre queste diverse tinte in un acquerello che aspiri all’armonia cromatica di Rosai e di Morandi. Infine dovrei aggiungere qualche nota dei Notturni di Chopin, una sferzata alla Jimmy Hendrix, una buona dose di ironia e qualche grano di follia. La stessa che temo di aver dimostrato scrivendo questo testo.