INDAGINE SULL'IMPERFETTO. Il giorno 8 settembre, in occasione della Notte delle Biblioteche e dei Musei, il MAAD di Adria inaugura una nuova esposizione. Alle ore 18,30 sarà presentata al pubblico: Indagine sull’imperfetto, con opere di Silvia Camporesi, Anna Di Prospero, Maurizio Camerani e Mustafa Sabbagh. Immagini fotografiche e installazioni digitali che costituiscono un itinerario, attraverso una selezione qualitativa e non di tendenza, per giungere ad una riflessione sugli sviluppi e le evoluzioni che hanno per oggetto traiettorie inedite che fanno dell’immagine fotografica uno degli ambiti di maggior fermento dell’attualità artistica. I quattro autori hanno contribuito in questi ultimissimi anni alla scoperta di nuove inclinazioni di ordine immaginativo e di nuove sensibilità. Un cambiamento di prospettiva e di punti di vista semantici su ciò che tradizionalmente e convenzionalmente competeva all’immagine fotografica. Uno spostamento di confini e di generi consolidati, che in pochissimo tempo ha annoverato questi quattro autori tra i maggiori artisti contemporanei.

Maurizio Camerani, Silvia Camporesi, Anna Di Prospero, Mustafa Sabbagh

a cura di MLB Maria Livia Brunelli Gallery

Quattro artisti a confronto, accomunati da una ricerca sull’imperfezione. Immagini fotografiche e installazioni digitali che costituiscono un itinerario, attraverso una selezione qualitativa e non di tendenza, per giungere ad una riflessione sugli sviluppi e le evoluzioni che hanno per oggetto traiettorie inedite che fanno dell’immagine fotografica uno degli ambiti di maggior fermento dell’attualità artistica.

Un cambiamento di prospettiva e di punti di vista semantici su ciò che tradizionalmente e convenzionalmente competeva all’immagine fotografica. Uno spostamento di confini e di generi consolidati, che in pochissimo tempo ha annoverato questi quattro autori tra i maggiori artisti italiani contemporanei.

Maurizio Camerani

Una installazione composta da cinque immagini fotografiche che scandiscono diversi momenti   dell’allestimento di una mostra dell’artista in una galleria di Bologna negli anni Ottanta.
La qualità delle immagini realizzate a suo tempo su cassetta VHS in analogico ha subito in quasi tre decenni di oblio un progressivo deterioramento per effetto della smagnetizzazione del nastro. Una perdita di nitidezza cui fa da contraltare una qualità straordinaria che solo il trascorrere del tempo determina: le immagini hanno “interiorizzato il tempo” restituendocene intatto il fascino.

Silvia Camporesi

Imperfezione come "paesaggio rovesciato”, che capovolge la percezione abituale del reale creando straniamento: il vulcano più piccolo del mondo, un castello di sabbia diventato opera museale, gli orologi – per definizione simbolo di perfezione e precisione - che al Museo Guatelli creano una installazione cacofonica, imperfetta nella sua affascinante immutabilità.

Anna di Prospero

Queste quattro fotografie appartengono alla serie “Beyond the visible”, un lavoro incentrato sull’analisi dell’inconscio; rappresentano il fascino di una bellezza che non è mai perfetta e insieme creano una storia nella quale lo spettatore può vivere una riflessione personale e introspettiva sul tema dell'imperfezione, immerso in una suggestione fiabesca dove ogni cosa è accennata ed evocata. Un sogno rosa che riporta a memorie d’infanzia, a giochi in giardino di cui si è sfumata la memoria, ma proprio in questa indefinitezza risiede la magia della nostalgia.

Mustafa Sabbagh

“Nel corpo umano non esiste uno spazio come la cavità, correttamente chiamata. Ogni spazio è occupato dal suo contenuto. Lo spazio toracico è completamente riempito dalla sua viscera, che, in massa, prende la forma perfetta del suo interno. Le viscere toraciche si trovano così strettamente legate l'una all'altra, che rispettivamente influenzano la forma e le dimensioni dell'altro”. Questa riflessione di Joseph Maclise, tratta da “Anatomia chirurgica”, introduce nell’universo di Mustafa Sabbagh, dove gli abissi neri dell’inconscio e del corpo umano invitano a una indagine della propria essenza e autenticità, al di là di ogni perfetta apparenza.

Mario Cresci (Chiavari, 1942) 

È tra i primi in Italia della sua generazione ad applicare e coniugare la cultura del progetto alle sperimentazioni sui linguaggi visivi.

La sua complessa opera affonda le proprie radici in studi multidisciplinari a partire dal 1964, anno in cui inizia a frequentare il Corso Superiore di Disegno Industriale a Venezia. Nel 1968 si trasferisce a Roma dove entra in contatto con Pascali, Mattiacci e Kounellis. Fotografa Boetti e il gruppo dell’arte povera torinese durante l’allestimento della mostra Il percorso, a cura di Mara Coccia presso lo Studio Arco d’Alibert. Nel 1969, presso la Galleria Il Diaframma di Milano, progetta e realizza il primo Environnement fotografico in Europa, nel nome del dualismo tra ricchezza e povertà.

A partire dagli anni Settanta ibrida lo studio del linguaggio fotografico e la cultura del progetto con l'interesse per l'antropologia culturale, realizzando in Basilicata progetti centrali per lo sviluppo della fotografia in Italia, tra cui ricordiamo il libro Matera, immagini e documenti del 1975.

Premio Niépce per l’Italia nel 1967, prende parte a diverse edizioni della Biennale di Venezia (1970, 1978, 1993, 1995); dal 1974, alcune sue fotografie, insieme a quelle di Luigi Ghirri, fanno parte della collezione del MoMA di New York.

È autore di opere multiformi caratterizzate da una libertà di ricerca che attraversa il disegno, la fotografia, l’esperienza video, l’installazione. Varie sono le tematiche e le sperimentazioni sviluppate nelle sue opere nel corso degli anni: dagli slittamenti di senso, alle variazioni, dalle analogie al rapporto con il paesaggio e i luoghi dell’arte – come nelle opere site-specific che appartengono alle ricerche degli ultimi anni, nate proprio grazie al confronto organico con determinati luoghi e le loro peculiarità storiche, culturali ed estetiche –. Per Cresci, infatti, la fotografia non è mai fine a se stessa, autosufficiente e singolare, ma è sempre parte di un racconto per immagini capace di coniugare conoscenza e bellezza, ricerca sul campo ed emozione visiva.

Il progetto sperimentale del laboratorio-scuola di formazione artistica tra arte, multimedia e design, ideato per la Regione Basilicata, lo avvicina sempre più all’insegnamento che, dalla fine degli anni Settanta in poi, diviene parte integrante del suo lavoro d’autore.

 

A esporre una delle maggiori artiste-fotografe italiane, Silvia Camporesi, insieme a Ketty Tagliatti, artista e scultrice: le due artiste hanno realizzato opere site specific per gli interni della cinquecentesca abitazione di Leopoldina Pallotta della Torre, discendente di una antica famiglia marchigiana; la villa, accuratamente restaurata da un atto d'amore, ospita mostre di arte contemporanea da diversi anni.
Dopo due edizioni curate da Ludovico Pratesi, che hanno visto attivi artisti del calibro di Flavio Favelli e Giovanni Ozzola, ora è la volta di queste due artiste, accomunate dalla volontà di essere "custodi del tempo".
La mostra sarà visitabile dall' 11 giugno al 30 settembre previo appuntamento.

Silvia Camporesi espone una raffinata selezione di fotografie della serie "Atlas Italiae" dedicate al carcere di Pianosa, in cui è stata la prima fotografa ammessa a entrare; mentre Ketty Tagliatti, nota nel mondo dell’arte per le sue tele in cui ha cucito con infinita pazienza centinaia di spine di rose, presenta una meditata scelta di lavori.

Oggetti prediletti del lavoro di Ketty Tagliatti sono state le poltrone e le rose, in realtà entrambi pretesti per indagare il tempo del fare arte, che nel suo caso è un tempo lento, che implica la calma ritualità di gesti catartici, sempre uguali. Una manualità intesa come rito: ha utilizzato in questo senso il ricamo per attaccare spine di rose reali sulla tela. Partita da una riflessione sull’arte informale, che è alla base di tutti i suoi lavori, a Carignano espone un arazzo davvero incredibile, che ha richiesto mesi e mesi di lavoro. Non si tratta questa volta di una rosa, ma di una camelia, simbolo decorativo cinese che l’artista ha tratto da una vecchia tappezzeria parigina dell’inizio del secolo. Stupefacente è la tecnica utilizzata per un'opera così grande: ogni petalo è realizzato con centinaia e centinaia di spilli, che, sapientemente affiancati e direzionati, creano le morbide volute tipiche di questo fiore. La fitta trama di spilli lucenti si presenta come un raffinato ricamo d’argento, che evoca una bellezza sfavillante tanto quanto inquietante.

Scrive l’artista a proposito di un’opera altrettanto evocativa, una colonna di suppellettili di famiglia ricoperte di tessuto, quasi a volerne proteggere la fragilità in quanto muti testimoni di ore di lieta convivialità: “Gli oggetti abbandonati, testimoni di un’epoca ormai passata, mi hanno sempre affascinato. Forse perchè ricchi di memorie di un’esistenza scandita da riti quotidiani più rassicuranti, nella loro lentezza. Questi, ora non più in uso, scartati dalle mani di chi si è preso cura della loro identità di strumenti utili, sono stati rimpiazzati con oggetti portatori di riti più veloci ed essenziali, che alla fine hanno modificato anche il nostro spazio vitale svuotandolo di un suo valore sacrale fatto di antiche tradizioni. Li ho riconosciuti, scelti, isolati con un involucro di stoffa morbida cucita addosso che li rende neutri pur rispettando la memoria della loro originaria e singolare identità. Li ho collocati in un individuale spazio-loculo che ridà loro una nuova sacralità. Spogliandoli della funzione utilitaristica, li ho rivestiti della loro essenza, esponendo così il loro “Nervo Divino”, come direbbe J. Ortega Y Gasset”.

Silvia Camporesi lavora in altro modo come “custode del tempo”. L’artista ha esplorato nell’arco di un anno e mezzo tutte le regioni italiane alla ricerca di paesi ed edifici abbandonati. “Atlas Italiae” è il risultato di questa raccolta di immagini, una mappa ideale dell’Italia che sta svanendo, un atlante della dissolvenza. Si scoprono così luoghi nascosti e spesso mai svelati, magici nelle loro smagliature scrostate, pervasi da energie impalpabili. La serie fotografica si presenta come una collezione poetica di luoghi (borghi disabitati, architetture fatiscenti, archeologie industriali) fondata sulla ricerca di frammenti di memoria. Questa mappatura non ha intenti di denuncia, ma riprende idealmente lo spirito del Grand Tour, della ricerca di vestigia passate, ancora portatrici di tracce di vite vissute, con cui confrontarsi per riflettere sul presente al fine di immaginare il futuro. Una volta gli artisti andavano alla scoperta delle rovine romane, oggi Silvia Camporesi ricerca le rovine contemporanee. Per rivivere quello spirito e per ridare vita ai luoghi, alcune immagini sono state stampate in bianco e nero e colorate a mano dall’artista. Tra questi luoghi Silvia Camporesi ha scelto di fotografare l’isola di Pianosa, che, come scrive Marinella Paderni, è “un lembo di terra unico nel suo genere e dalla vita non facile, che pare più miraggio che una realtà concreta. Un luogo dalla natura selvaggia, protetta e salvaguardata dall’incuria umana, trasformato (forse proprio per questo) in una fortezza che confina i vissuti dei pochi uomini che la abitano tra un carcere di massima sicurezza, il mare e un parco nazionale. Prima artista a poter lavorare su Pianosa, nell’omaggio poetico che Silvia Camporesi dedica a Pianosa un altro elemento si affaccia al suo sguardo, ponendo l’artista di fronte alla sfida di catturare in una visione il mistero dell’acqua”.

Indirizzo (cliccare per aprire la mappa):

Villa "Al Console"
via per Carignano 186
Carignano (Lucca)

CUSTODI DEL TEMPO
 a cura di Maria Livia Brunelli

11 maggio - 30 settembre 2017
inaugurazione sabato 10 maggio dalle 16 alle 19
Villa "Al Console", via per Carignano 186 Carignano (Lucca)


A esporre una delle maggiori artiste-fotografe italiane, Silvia Camporesi, insieme a Ketty Tagliatti, artista e scultrice: le due artiste hanno realizzato opere site specific per gli interni della cinquecentesca abitazione di Leopoldina Pallotta della Torre, discendente di una antica famiglia marchigiana; la villa, accuratamente restaurata da un atto d'amore, ospita mostre di arte contemporanea da diversi anni.
Dopo due edizioni curate da Ludovico Pratesi, che hanno visto attivi artisti del calibro di Flavio Favelli e Giovanni Ozzola, ora è la volta di queste due artiste, accomunate dalla volontà di essere "custodi del tempo".

Silvia Camporesi espone una raffinata selezione di fotografie della serie "Atlas Italiae" dedicate al carcere di Pianosa, in cui è stata la prima fotografa ammessa a entrare; mentre Ketty Tagliatti, nota nel mondo dell’arte per le sue tele in cui ha cucito con infinita pazienza centinaia di spine di rose, presenta una meditata scelta di lavori.

Oggetti prediletti del lavoro di Ketty Tagliatti sono state le poltrone e le rose, in realtà entrambi pretesti per indagare il tempo del fare arte, che nel suo caso è un tempo lento, che implica la calma ritualità di gesti catartici, sempre uguali. Una manualità intesa come rito: ha utilizzato in questo senso il ricamo per attaccare spine di rose reali sulla tela. Partita da una riflessione sull’arte informale, che è alla base di tutti i suoi lavori, a Carignano espone un arazzo davvero incredibile, che ha richiesto mesi e mesi di lavoro. Non si tratta questa volta di una rosa, ma di una camelia, simbolo decorativo cinese che l’artista ha tratto da una vecchia tappezzeria parigina dell’inizio del secolo. Stupefacente è la tecnica utilizzata per un'opera così grande: ogni petalo è realizzato con centinaia e centinaia di spilli, che, sapientemente affiancati e direzionati, creano le morbide volute tipiche di questo fiore. La fitta trama di spilli lucenti si presenta come un raffinato ricamo d’argento, che evoca una bellezza sfavillante tanto quanto inquietante.

Scrive l’artista a proposito di un’opera altrettanto evocativa, una colonna di suppellettili di famiglia ricoperte di tessuto, quasi a volerne proteggere la fragilità in quanto muti testimoni di ore di lieta convivialità: “Gli oggetti abbandonati, testimoni di un’epoca ormai passata, mi hanno sempre affascinato. Forse perchè ricchi di memorie di un’esistenza scandita da riti quotidiani più rassicuranti, nella loro lentezza. Questi, ora non più in uso, scartati dalle mani di chi si è preso cura della loro identità di strumenti utili, sono stati rimpiazzati con oggetti portatori di riti più veloci ed essenziali, che alla fine hanno modificato anche il nostro spazio vitale svuotandolo di un suo valore sacrale fatto di antiche tradizioni. Li ho riconosciuti, scelti, isolati con un involucro di stoffa morbida cucita addosso che li rende neutri pur rispettando la memoria della loro originaria e singolare identità. Li ho collocati in un individuale spazio-loculo che ridà loro una nuova sacralità. Spogliandoli della funzione utilitaristica, li ho rivestiti della loro essenza, esponendo così il loro “Nervo Divino”, come direbbe J. Ortega Y Gasset”.

Silvia Camporesi lavora in altro modo come “custode del tempo”. L’artista ha esplorato nell’arco di un anno e mezzo tutte le regioni italiane alla ricerca di paesi ed edifici abbandonati. “Atlas Italiae” è il risultato di questa raccolta di immagini, una mappa ideale dell’Italia che sta svanendo, un atlante della dissolvenza. Si scoprono così luoghi nascosti e spesso mai svelati, magici nelle loro smagliature scrostate, pervasi da energie impalpabili. La serie fotografica si presenta come una collezione poetica di luoghi (borghi disabitati, architetture fatiscenti, archeologie industriali) fondata sulla ricerca di frammenti di memoria. Questa mappatura non ha intenti di denuncia, ma riprende idealmente lo spirito del Grand Tour, della ricerca di vestigia passate, ancora portatrici di tracce di vite vissute, con cui confrontarsi per riflettere sul presente al fine di immaginare il futuro. Una volta gli artisti andavano alla scoperta delle rovine romane, oggi Silvia Camporesi ricerca le rovine contemporanee. Per rivivere quello spirito e per ridare vita ai luoghi, alcune immagini sono state stampate in bianco e nero e colorate a mano dall’artista. Tra questi luoghi Silvia Camporesi ha scelto di fotografare l’isola di Pianosa, che, come scrive Marinella Paderni, è “un lembo di terra unico nel suo genere e dalla vita non facile, che pare più miraggio che una realtà concreta. Un luogo dalla natura selvaggia, protetta e salvaguardata dall’incuria umana, trasformato (forse proprio per questo) in una fortezza che confina i vissuti dei pochi uomini che la abitano tra un carcere di massima sicurezza, il mare e un parco nazionale. Prima artista a poter lavorare su Pianosa, nell’omaggio poetico che Silvia Camporesi dedica a Pianosa un altro elemento si affaccia al suo sguardo, ponendo l’artista di fronte alla sfida di catturare in una visione il mistero dell’acqua”.

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