dal 28 novembre 2025 all’8 marzo 2026
La Sardegna, con la sua storia di intrecci, di trame cariche di simboli identitari e di memoria comunitaria, diventa il punto di partenza per una riflessione che si apre a esperienze globali: dalle opere di Maria Lai e Caterina Frongia alle pratiche di Francesca Marconi, dai tappeti delle sorelle Senes di Nule alle creazioni sperimentali di artisti come Zehra Doğan e Andreco. La mostra invita a guardare alla tessitura come atto di resistenza e di rigenerazione: un filo che cuce fratture storiche e culturali, che ridà voce a comunità marginalizzate, che diventa testimonianza politica e poetica al tempo stesso. L’esposizione, curata dal funzionario direttore dei musei ISRE Efisio Carbone affronta il tema della tessitura come linguaggio universale, capace di unire il gesto artigianale tradizionale con le più urgenti domande della contemporaneità.
“La tessitura è uno dei gesti fondativi della cultura umana. Da sempre, l’intreccio di fili ha rappresentato la capacità dell’uomo e della donna di costruire continuità e ordine nel tempo. Prima ancora che arte o mestiere, il tessere è un modo di pensare: un’azione che unisce mente e mano, riflessione e corpo. Fin dai miti antichi, il filo governa la sorte: Penelope disfa e rifà la tela per sospendere il tempo; Aracne sfida la dea Atena trasformando la superbia del gesto in punizione e metamorfosi; le Parche filano la vita e la recidono.” Così presenta la Mostra collettiva Efisio Carbone. “In ogni cultura, il telaio è stato immagine del mondo: struttura, ritmo, equilibrio. Come ricordava l’antropologo Claude Lévi-Strauss, “il pensiero costruisce la realtà come un tessuto”, una rete di relazioni materiali e simboliche.
“In Sardegna, la tessitura non è soltanto una tradizione, ma una forma di esistenza. Nelle case, nelle botteghe, nei laboratori comunitari, i telai sono stati per secoli strumenti di autonomia economica e culturale, luoghi di trasmissione dei saperi, ma anche spazi di libertà.” prosegue Stefano Lavra, presidente ISRE. Ogni tappeto, ogni arazzo è un racconto tramandato in segni, un modo di affermare identità, bellezza e necessità. La mostra Tessere per resistere si fonda su questa consapevolezza: che il filo, nella sua umiltà e nella sua forza, è ancora oggi un linguaggio vivo, capace di attraversare i confini tra arte, artigianato, filosofia, antropologia e società.
Il Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde, luogo di memoria collettiva, diventa in questa occasione spazio di confronto fra artisti e artigiani, fra maestri storici e interpreti contemporanei. Questa copresenza non è un accostamento decorativo, ma un incontro reale: gli artisti contemporanei dialogano con le pratiche storiche, i maestri artigiani si confrontano con nuove prospettive estetiche. In questo ordito comune, la mostra intende mostrare la tessitura come atto politico e poetico, gesto di continuità e di resistenza. Il progetto allestitivo è dell’architetto Maurizio Bosa e gli allestimenti a cura di Eikon.
La tessitura come resistenza femminile
Il primo nucleo tematico è dedicato alla forza creativa e sociale delle donne che, nei secoli, hanno fatto del telaio un luogo di libertà. In Telai di guerra (anni ’90), Maria Lai unisce fili, carte e stoffe in un alfabeto visivo che parla di memoria e di conflitto. La sua tessitura è linguaggio del pensiero: un modo di trasformare la fragilità in conoscenza, la ferita in poesia. Lai porta la tradizione fuori dallo spazio domestico e la rende atto universale, simbolo di relazione e di cura. Con Rosanna Rossi, la tessitura diventa linguaggio analitico e materico. In Coltre di ferro (1996), l’artista intreccia lana d’acciaio: un lavoro che affronta il tema del lavoro domestico come condizione e resistenza, unendo la severità del gesto alla purezza della forma. La sua ricerca, collocata tra pittura analitica e sperimentazione internazionale, riflette sul ritmo stesso della tessitura sarda: rigore, concentrazione, misura. La serie delle tre Sonatine in grigio amplia questo discorso con un tono più intimo e musicale, dove il colore si dispone in campiture di suono e silenzio, quasi una partitura di fili e respiro.
Le Sorelle Senes di Nule incarnano l’anima duplice del lavoro condiviso. Di loro resta un emblematico tappeto, recentemente donato all’ISRE dagli eredi, nato da un dialogo e da un conflitto: due sorelle che tessevano “in disaccordo ma in armonia”, ciascuna imponendo la propria volontà progettuale. L’arazzo che ne scaturisce, asimmetrico e vibrante, è la metafora di un’unità imperfetta ma viva — il simbolo di un fare collettivo in cui la diversità genera equilibrio. Le tessitrici di Nule, documentate dagli operatori dell’ISRE, ne proseguono idealmente l’eredità, custodendo con naturalezza una sapienza che continua a essere viva, utile, necessaria.
La tessitura come testimonianza civile
Molti artisti presenti in mostra usano il filo come strumento politico, come mezzo per resistere, ricordare o costruire ponti tra culture. Zehra Doğan, artista e giornalista curda, lavora su tappeti sardi come segno di vicinanza tra popoli, in occasione di una sua residenza in Sardegna per il progetto “Laboratorio Mediterraneo” finanziato dalla Regione Autonoma della Sardegna per la Fondazione MACC. Nei suoi intrecci si riconoscono l’esperienza dell’esilio, la forza del gesto femminile e la capacità del tessuto di superare le barriere linguistiche e geografiche. Il suo lavoro nasce dal carcere e diventa atto di libertà condivisa. Giovanni Gaggia, con Com’è il cielo in Palestina (2023-2025), ricama e disegna per costruire un atto di “attivismo gentile”: un’arte che non urla ma ricuce, che trasforma la contemplazione in partecipazione. La tessitura è per lui gesto di guarigione collettiva, ponte tra biografia e storia. Sasha Roshen, artista ucraino, porta in mostra un video girato in tempo di guerra: la madre e i vicini di casa tessono insieme una grande rete mimetica destinata all’esercito ucraino. Il film mostra la vita sospesa di chi resta, l’attesa e la solidarietà quotidiana come forme di resistenza. A questo lavoro l’artista affianca una serie di dipinti recenti, in cui la pittura riprende i ritmi e le texture della rete, trasformandola in metafora della visione e del silenzio. Francesca Marconi, con Illa Kumún / The Common Island (2024), realizza a Mindelo, Capo Verde, un tappeto a mano con il maestro tessitore Marcelino Andrade. L’opera rilegge un’incisione ottocentesca tratta da A Voyage to Senegal di Jean Baptiste, mettendo in discussione l’eredità visiva del colonialismo e proponendo la tessitura come atto di decolonizzazione. Il filo diventa così medium critico, strumento di scambio e di giustizia culturale.
La tessitura come memoria e identità
Nelle opere di Caterina Frongia, la memoria personale e collettiva si intrecciano nella materia. Il movimento diventa tema e struttura delle opere, racconti di identità in trasformazione in questo spostamento costante che accomuna popoli e culture nella Storia. Tigri incarna e sintetizza questi temi. In Liberaci dal mare, Amen (2025), l’artista utilizza lana, cotone, corde da campeggio, elastici e fischietti di salvataggio. Il titolo nasce da una preghiera infantile, pronunciata davanti al mare della Sardegna. L’opera oscilla tra la spensieratezza del ricordo e il dramma delle migrazioni contemporanee, tra la leggerezza del gioco e la paura del naufragio. Frongia collabora con NARÈNTE (Lucio Aru + Franco Erre), che uniscono fotografia, moda e installazione per indagare il corpo e l’abito come luoghi di identità collettiva e metamorfosi. Marianna Pischedda lavora sul bisso marino di Sant’Antioco, fibra rara e preziosa, ricavata dal filamento della Pinna Nobilis. È una pratica eroica, oggi quasi scomparsa, tramandata da pochissime tessitrici. Nei suoi lavori, la luce del mare si fa filo e respiro: la tessitura diventa atto sacro, testimonianza di un sapere fragile ma resistente, che unisce materia naturale, gesto e contemplazione.
La tessitura come ecologia e responsabilità
Per Andreco, artista e ingegnere ambientale, il tessere è metafora di equilibrio tra umano e ambiente. Il suo progetto nasce da un’esperienza in un villaggio africano dove si è occupato di potabilità dell’acqua. Da quella collaborazione sono nati tappeti donati dalla comunità come segno di riconoscenza e un video che registra una performance realizzata in Marocco vicino all’Oasi di Smira (2013). La tessitura diventa qui linguaggio dell’interdipendenza: non solo rappresentazione, ma costruzione concreta di un ecosistema estetico ed etico, in cui l’arte restituisce valore al gesto di cura.
Oltre, la tessitura apre a pratiche in cui il filo diventa idea, forma mentale, concetto. Anna Gardu, maestra dolciaria di Oliena, realizza ricami di zucchero ispirati ai motivi del filet di Bosa. Le sue opere, fragili e precise, uniscono gesto rituale e conoscenza tecnica: un’arte che si dissolve, ma resta nella memoria sensoriale. Tonino Secci, figura colta del secondo Novecento sardo, esplora la carta come materia di luce e spazio. Le sue superfici, attraversate da tagli, pieghe e sovrapposizioni, sembrano tessiture invisibili in cui la percezione si fa ritmo e materia di indagine delle correnti italiane e degli artisti più celebrati nel mondo come lo Spazialismo di Fontana e l’Informale di Burri per altro a lui vicini nella Milano degli anni ’60 e ‘70. Andrea Contin propone invece una riflessione concettuale sul viaggio come trama sociale: nei suoi lavori, i colori primari – ciano, magenta, giallo – rappresentano le traiettorie dei pendolari, i fili invisibili che collegano territori e comunità, siamo nella piena astrazione del tema.
La resistenza comunitaria e dei saperi Annalisa Cocco e Anna Deriu – designer e tessitrice – dialogano con i disegni di Eugenio Tavolara, rievocando lo spirito del progetto I.S.O.L.A. Ente istituito dalla Regione Autonoma della Sardegna nel 1957, che nel secondo dopoguerra valorizzò la manifattura sarda come strumento di emancipazione e radicamento territoriale. Nel loro lavoro si riconosce la volontà di ripensare il design come atto di comunità e continuità culturale. Raffaella Marongiu, maestra di Su Filindeu, intreccia fili di pasta sottilissimi per creare un alimento rituale destinato ai pellegrinaggi: un atto di fede e di dedizione, dove il nutrimento si fa linguaggio e il cibo diventa tessitura del sacro.
Tessere per resistere è un progetto espositivo che attraversa tempi e generazioni, in cui artisti e artigiani condividono lo stesso gesto di costruzione e di cura. L’incontro fra la tradizione tessile sarda e le ricerche contemporanee dimostra che il sapere manuale non è eredità statica, ma materia viva, capace di rinnovarsi. Ogni opera presente in mostra è un filo che lega l’individuale al collettivo, l’intimo al politico. La tessitura appare come una filosofia della connessione: un modo di ricomporre ciò che la modernità frammenta. In un’epoca di velocità e smaterializzazione, il telaio restituisce la misura del tempo, la concretezza del lavoro, la dignità del gesto. Come scriveva Maria Lai, “l’arte è un modo di legarsi agli altri.” E come ricordava Italo Calvino, “ritessere i fili spezzati è il compito dell’arte.” Tessere per resistere non è dunque un titolo metaforico, ma un invito: a riconoscere, nel filo che unisce mani, storie e saperi, la forma più antica e più attuale della resistenza.
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